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Il neorealismo è stato un movimento culturale, nato e sviluppatosi in Italia durante il secondo conflitto mondiale e nell'immediato dopoguerra
L'industria cinematografica sudcoreana gode di una forte reputazione internazionale ormai da diversi anni ma vediamo quali sono i 10 migliori registi coreani moderni
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È indubbiamente il fenomeno seriale del momento: con il suo disturbante punto di vista sul mondo degli adolescenti nativi digitali e, soprattutto, sui loro genitori, e i suoi quattro virtuosistici piani sequenza, Adolescence continua imperterrita a far parlare di sé, macinando record. Con 114 milioni di visualizzazioni in appena 24 giorni, la serie britannica è diventata la quarta serie in lingua inglese più vista di sempre sulla piattaforma, con ampi margini per migliorare la posizione in classifica.
In terza posizione, infatti, sarà facile da superare Dahmer – Mostro (115,6 milioni), così come è un obbiettivo fattibile quello della quarta stagione di Stranger Things (140,7 milioni), attualmente al secondo posto. Sembra inavvicinabile con i suoi 252 milioni di visualizzazioni il titolo in vetta: Mercoledì, che è pronta a tornare con un’attesissima seconda stagione. La corsa finirà dopo 91 giorni di visione, tempo limite che Netflix si impone per tener conto di questi dati: quindi Adolescence ha ancora due mesi interi per provare a battere ogni record.
Era dai tempi di Tredici (13 reasons why) che una serie Netflix non diventava virale per ragioni di stampo sociale, più che per la sua capacità di diventare virale sui social. Cosa che è capitata, ad esempio, con Mercoledì e l’iconico balletto di Jenna Ortega o la stessa Squid Game (non a caso le due serie più viste in assoluto). Argomenti come quelli della “manosfera” (comunità eterogenea di attivisti per i diritti degli uomini, spesso dichiaratamente misogini), degli incel (celibi involontari), del revenge porn e del bullismo digitale vengono rilanciati da una scelta tecnica (quella del piano sequenza) che ha appassionato i cinefili e incuriosito i neofiti. Tutto ciò ha dato vita a un passaparola tra i più efficaci della storia di Netflix che non ha ancora ultimato il suo slancio.
La Top 10 del 26/5/2025 #BoxOfficeItalia #Cinetel
1 LILO & STITCH ( €675833 - 92803 spettatori)
2 MISSION: IMPOSSIBLE - THE FINAL RECKONING ( €132460 - 17814 spettatori)
3 FUORI ( €50076 - 8129 spettatori)
4 FINAL DESTINATION BLOODLINES ( €29057 - 3890 spettatori)
5 ERASERHEAD 4K ( €25281 - 3701 spettatori)
6 SCOMODE VERITA' ( €9464 - 1586 spettatori)
7 THUNDERBOLTS* ( €7307 - 1045 spettatori)
8 PATERNAL LEAVE ( €5379 - 856 spettatori)
9 LARGO WINCH - IL PREZZO DEL DENARO ( €5050 - 838 spettatori)
10 SAN DAMIANO ( €3440 - 550 spettatori)
Ferzan Ozpetek torna nel 2024 con Diamanti, un film ambientato nella Roma di fine anni ’70 che segna un’importante ripresa dopo anni di produzioni meno incisive. Il film, con un cast quasi tutto femminile (Luisa Ranieri, Jasmine Trinca, Mara Venier, Geppi Cucciari, ecc.), si svolge in una sartoria che realizza costumi per il cinema, diventando il simbolo di un microcosmo femminile variegato.
Ozpetek propone un elogio alla resilienza del genere femminile, costruendo personaggi che incarnano varie lotte sociali e personali. Tra questi spicca Alberta (interpretata con forza da Luisa Ranieri), figura centrale e ben sviluppata. La sartoria stessa diventa un personaggio simbolico, metafora della creatività e del lavoro invisibile delle donne.
Il film eccelle nella cura estetica e nella regia elegante, più contenuta rispetto al passato per lasciare spazio alle protagoniste. Tuttavia, alcuni difetti emergono: dialoghi a tratti troppo letterari, personaggi secondari trascurati e inserti meta-cinematografici poco efficaci che rallentano la narrazione.
Nonostante questi limiti, Diamanti riesce a trasmettere un potente messaggio di empowerment femminile, mostrando un Ozpetek più maturo, disposto a fare un passo indietro per valorizzare le sue attrici – i veri "diamanti" del film.
Fonte: Brian Arnoldi per everyeye.it
Secondo Elisa Torsiello di Movieplayer.it, nel film Un colpo di fortuna la “fortuna” non è altro che il colpo beffardo di un destino cinico e crudele. Woody Allen torna a raccontare una storia di amori, gelosie e crimini ambientata nella Parigi elegante e borghese, dove dietro le apparenze raffinate si celano vizi, ipocrisie e tradimenti. La città diventa non solo sfondo, ma personaggio attivo, in una narrazione sospesa tra thriller e commedia grottesca.
La trama ruota attorno a Fanny e Jean, coppia apparentemente perfetta, la cui armonia si spezza quando Fanny ritrova un vecchio compagno di scuola, Alain, con cui nasce una relazione. Il marito, accecato dalla gelosia e dal senso di possesso, escogita un delitto quasi perfetto, innescando una spirale di eventi dominati da istinto, cinismo e colpi di scena.
Allen costruisce un racconto in cui il riso sarcastico si intreccia al crimine, in cui uomini dalla mascolinità tossica e donne incatenate a sogni romantici vengono messi a nudo nella loro fragilità. L’ironia serve ad addolcire una realtà spietata, mentre la regia essenziale e curata, accompagnata dalla fotografia cangiante di Vittorio Storaro e da una colonna sonora jazz, crea un’atmosfera sospesa tra tensione e leggerezza.
Come in Match Point e Scoop, Allen riflette sulla casualità, la colpa e la manipolazione, mescolando il thriller alla commedia con una visione disillusa dell’animo umano. Il film diventa così un affresco di esistenze grottesche, dove la fortuna è solo il pretesto per esplorare la crudezza delle relazioni e l’imprevedibilità del destino.
"Secondo Davide Turrini de "Il fatto quotidiano" il regista Aki kaurismaki è un tradizionalista esasperato. Compone e ricompone lo stesso film da una ventina d’anni. Lui, lei (l’altro), un cane (un bambino). Solitari in cerca di calore umano e di una qualche alcolica forma di catarsi. La società individualista che schiaccia la solidarietà comunitaria. Potremmo fermarci qua e usare queste righe per illustrare l’impalcatura della consolidata poetica ed estetica di una star del cinema d’essai europeo. Poi arriva Fallen leaves, in italiano Foglie al vento, e capisci che siamo di fronte ad una prova formale autera e in purezza, che richiama quello “stile trascendente” che Paul Schrader argomentava per Ozu, Bresson, Dreyer. Per capire, appunto, Foglie al vento, bisogna poi mettere da parte qualsiasi forma analitica di “realismo psicologico” (Schrader, appunto, docet) e scontare la fobia antirussa dei finlandesi che qui abbonda fuor di metafora sforacchiando radiofonicamente qua e la l’atmosfera spirituale apparecchiata attorno ad Ansa (Alma Poyisti), riempitrice di scaffali in un supermercato, e Holappa (Jussi Vatanen), saldatore alcolizzato che vive nel container aziendale. Siamo nella moderna, spesso serale/notturna, Helsinki di oggi. Contrasto evidente tra margini scrostati e levigata profondità di campo urbana, la storia procede per piccoli incontri ed incidenti, speranze e disillusioni. Lei viene licenziata per un eccesso di etica antiaziendale (regala cibo scaduto e si intasca un panino marcito; lui, sotto l’effetto della vodka si ferisce e viene cacciato dal lavoro. I due si conoscono sulle note di un Karaoke, vanno nella sala d’essai a vedere un film di Jarmush, lei lo invita a cena ma lui perde subito il biglietto su cui è scritto il numero di telefono (non ci sono smartphone o tecnologie post ‘89 nel cinema di Kaurismaki), poi ancora: l’arrivo di un cagnetto, la disgrazia, la salvezza, il ricongiungimento e l’inquadratura finale di Tempi moderni. Così come in tutto il suo cinema Kaurismaki estrapola l’essenza di ogni battuta del proprio discorso (sulla solitudine, sull’esistenza, sul capitalismo) con la semplicità di immobili primi piani e mezzi busti; Invece è sul versante del commento musicale, scenografico e fotografico che il regista finlandese spinge verso un cosmo riconoscibile e minimale, melanconico e vagamente nostalgico (i brani tradizionali, pop e in finlandese di qualche decennio beat fa), in modo da avere un quadro pitturato di dettagli colorati caldi e di ombre comiche espressioniste sui muri d’interni. C’è proprio una luce peculiare nel cinema di Kaurismaki che sembra evocare gli spiriti della cinefilia (il film è zeppo di locandine, sottolineature, rimandi al cinema amato e fatto dalla Nouvelle Vague) come la solitudine dell’uomo di fronte ad un anonimo schiacciante sistema. Così, proprio sgrezzato di fuorvianti sentimentalismi (baci e copule addio), che Ansa e Holappa si ritrovino comunque, seppure sgangherati, zoppicanti e senza un maledetto euro, insieme verso un orizzonte possibile,è un messaggio che travolge e commuove in maniera identica ad ogni latitudine del globo. Premio della Giuria a Cannes 2023. Mentre per Marta Balaga di Cineuropa Aki kaurismaki ci fa sentire malinconici e tristi, quasi ubriachi di tutta quella birra stantia per poi rendersi conto, alla fine, che la storia che ha raccontato è in realtà molto edificante. Non molti altri ci riescono e, francamente, forse non dovrebbero provarci. Il suo film in concorso a Cannes, Foglie al vento, è un’interpretazione delicata di una piccola storia d’amore, di cui il mondo non si accorgerebbe ma che comunque cambia la vita. La coppia in questione (Alma Poysti e Jussi Vatanen di Tove) forse non lo sa ancora, o forse lo sa, ma nonostante l’universo stia cospirando contro di loro, come nella commedia romantica Serendipity con John Cusack (con numeri di telefono che si perdono e incidenti in attesa di accadere), non si arrendono mai. Non sono ingenui: hanno già visto tutto e la vita non è sempre stata gentile con loro. Vederli tentare ancora, ancora e ancora, è straziante. Nel senso più dolce del termine. Questo è un mondo di lavori senza prospettive e di alcolismo, di notti fredde e di solitudine curata dal karaoke e dall’alcol, visto che siamo in Finlandia. A volte sembra di essere negli anni ‘60, con le gonne retrò di Alma Poysti che svolazzano, ma dalla radio si sentono solo gli aggiornamenti sulla guerra in Ucraina. E’ come se la realtà contemporanea cercasse di invadere il suo piccolo universo, e Kaurismaki a un certo punto cede. I suoi personaggi hanno anche bisogno di affrontare ciò che li circonda, di smettere di correre e di adottare un cane randagio. E’ così che si trova la felicità. Il regista finlandese non cambia il suo stile, facendo in modo che il pubblica riceva quello che si aspetta da lui, quelle battute (“I duri non cantano”), le persone che “sono depresse perchè bevono e che bevono perchè sono depresse”, e i riferimenti al cinema, impilati l’uno sull’altro. C’è un momento in cui questi gentili e timidi quasi-amanti vanno a vedere un film e guardano lo zombiefest di Jim Jarmusch I morti non muoiono- che era l’apertura di Cannes nel 2019- con qualcun altro che lo paragona a Diario di un curato di campagna di Bresson.
Fonte: Il fatto quotidiano e Cineuropa.
Sull’Independent (Regno Unito) Clarisse Loughrey scrive che è indecisa se la scelta di mettere a confronto Doctor Strange in the Multiverse of Madness della Marvel con Everything everywhere All at Once- un film basato sullo stesso concetto di realtà parallele, ma realizzato con una frazione del budget- sia avventata o geniale. Ad ogni modo, Davide ha mostrato a Golia come si fa. Ecco un film che capisce davvero come potrebbe essere l’infinito. Everything everywhere All at Once esiste nelle terre selvagge esterne dell’immaginazione. Rimbalza su rappresentazioni familiari di stati alterati, che si tratti di The Matrix o dei film fantasmatici di Michel Gondry, pur sentendosi del tutto inclassificabile. Quella curiosa miscela di estremi tonali sarà già familiare ai fan di Dan Kwan e Daniel Scheinert, altrimenti noto come The Daniels. Dopo il successo del loro video musicale per “Turn Down for what” di Dj Snake e Lil jon- in cui un ragazzo sfonda l’inguine attraverso diversi piani di un condominio- hanno realizzato il loro film d’esordio Swiss Army Man (2016) sulla tenera relazione tra il sopravvissuto a un naufragio e un cadavere scorreggiante interpretato da Daniel Radeliffe. Con everything everywhere All at Once, questi registi hanno raggiunto il loro ritmo. Al centro della sua storia c’è una donna normale, Evelyn Wang (Michelle Yeoh). In effetti, lei è una donna ordinaria, che gestisce tranquillamente una lavanderia a gettoni nella Simi Valley, in California, con il suo dolce e vivace marito Waymond (Ke Huy Quan). Le tensioni sono alte. Il padre di Evelyn (James Hong) è in visita dalla Cina e ha sempre disprezzato la sua decisione di sposare Waymond e trasferirsi in America. Sua figlia, Joy (Stephanie Hsu), ha portato con sé la sua ragazza Becky (Tallie Medel), già amareggiata sapendo che sua madre sta per respingerla nell'armadio. "Da una pila di ricevute, posso tracciare gli alti e bassi della tua vita", avverte il suo agente dell'IRS assegnato Deirdre Beaubeirdra (Jamie Lee Curtis, deliziosamente e maniacalmente banale). "E non ha un bell'aspetto." Quindi, di punto in bianco, una versione di Waymond da qualche parte chiamata “Alphaverse” requisisce il corpo di suo marito per dirle che lei è la chiave per salvare tutta la realtà. Di tutte le Evelyn esistenti, derivate da ogni scelta che abbia mai fatto, questa Evelyn è andata peggio. Ciò significa che è l’unica che ha ancora un potenziale insoddisfatto. Che bel modo di guardare il mondo- che una vita in stasi è davvero una vita di possibilità senza fondo. Incontriamo parecchie delle altre Evelyn: una star delle arti marziali che potrebbe essere la stessa Yeoh (spot filmato dell’attore in Crazy Rich Asians red carpet), una dominatrice, una pinata, una cantante d’opera cinese, uno chef hibachi e una donna con hot dog al posto delle mani. I Daniels hanno pienamente catturato la sensazione fratturata dell’esistenza moderna, di non essere mai del tutto al volante della propria vita. Il compito di Evelyn, le viene detto è di “riportarci a come dovrebbe essere”. Ma questa si rivela una frase vuota. Se ogni percorso nella vita può convivere fianco a fianco, chi può dire che uno di loro sia quello giusto? E’ il tipo di filosofia che deve essere legata a qualcosa di forte e assoluto- questa è Yeoh, che si muove attraverso Tutto, ovunque e tutto in una volta come se potesse tenere l’intero film nel palmo della mano. Si potrebbe sostenere che l’attore, in un certo senso, abbia vissuto lei stessa alcune vite diverse: come star d’azione di Hong Kong in Heroic Trio (1993); la Bond girl in Il domani non muore mai (1997); la matriarca della commedia romantica in Crazy Rich Asians (2018). Dire che questa è una vetrina per il suo talento sembra quasi un eufemismo- lo stesso si può dire per Quan, che ha interpretato Schort Round in Indiana Jones and The Temple of Doom (1984), Data in The Goonies (1985) e poi ha imparato la dura lezione di quanto poco Hollywood si preoccupi per i risultati degli attori asiatici. Se l’industria è davvero cambiata in meglio, questo ritorno alla recitazione dovrebbe segnare il primo ruolo di molti.
Fonte: Clarisse Loughrey - Independent (Regno Unito)
Per celebrare il Giorno del Ringraziamento, Erik Blake riunisce tre generazioni della sua famiglia in Pennsylvania nell’appartamento di sua figlia a Lower Manhattan
Parigi 1935. Madeleine Verdier, aspirante attrice, convocata da un celebre produttore e poi aggredita, è accusata a torto del suo omicidio.
Il 2023 vedrà approdare in sala e in streaming numerosi libri adattati per il cinema e la serialità. Dalle biografie ai graphic novel, ma anche romanzi storici, classici e thriller, una guida in costante aggiornamento....
Come scrive Gianmaria Cataldo di Cinefilos, il premio Oscar Roman Polanski ha nel 2011 firmato la regia di Carnage ancora oggi considerato uno dei migliori film ambientati interamente in interni. Impostato come una commedia nera, quest’opera assume sempre più connotati inaspettati, portando ben presto gli spettatori a trovarsi di fronte a qualcosa di umanamente spaventoso, dove tutti gli istinti primordiali e gli aspetti taciuti vengono infine svelati, tra contraddizioni, ipocrisie, manie e una lunga serie di vizi che caratterizzano l’essere umano. Scritto dallo stesso Polanski insieme a Yasmina Reza, il film è basato sull’opera teatrale scritta proprio da quest’ultima, intitolata Il dio del massacro (in originale Le Dieu du Carnage). La vicenda ha inizio in un parco di Brooklyn, dove due bambini litigano violentemente e uno dei due ferisce l’altro al volto, colpendolo con un bastone. E’ a quel punto che entrano in gioco le famiglie dei due, che decidono di incontrarsi per discutere dell’accaduto. I coniugi Alan e Nancy Cowan vengono così ospitati nell’appartamento di Penelope e Michael Longstreet, genitori del bambino vittima dell’aggressione. Le coppie si presentano da subito diametralmente opposte e non è semplice intavolare una discussione proficua. Ben presto la contesa si sposterà dalle accuse reciproche sull’educazione dei figli a questioni personali. Uno degli elementi di maggiore forza del film è il suo cast di attori, i quali sono grossomodo solo quattro per tutto il film. Ad interpretare i coniugi Alan e Nancy Cowan vi sono gli attori premio Oscar Cristopher Waltz e Kate Winslet. Penelope e Michael Longstreet sono invece interpretati dalla premio Oscar Jodie Foster e dal candidato all’Oscar John C. Reilly. Polanski nel corso del film concede allo spettatore numerosi segnali delle derive che si manifesteranno ben presto, inquadrando i suoi personaggi in modo stretto, claustrofobico, abbandonando dunque una dimensione teatrale che sarebbe potuta essere fin troppo ovvia. Ciò che è importante è infatti qui mostrare come la facciata di perbenismo dei personaggi venga progressivamente abbandonata. In loro il regista fa confluire tutte le caratteristiche delle società per bene e civili, le quali nascondono i propri difetti senza però mai risolverli davvero. I quattro personaggi si svelano dunque come personalità consumate da quel Dio del Massacro che dà il titolo all’opera teatrale. Un Dio malvagio che si manifesta nell’egoismo, nell’individualismo e nel desiderio di supremazia nei confronti degli altri. Unico elemento di speranza sono proprio i bambini, con i due figli delle due coppie capaci infine di riappacificarsi come i loro genitori non sono riusciti a fare.
Per Manuel Fiorentini di cinematographe.it nel film, Polanski guida un cast semplicemente da sogno che di certo gli rende più semplice l’onere di far vibrare sullo schermo una storia ambientata esclusivamente in interni, eccezion fatta per la sequenza d’apertura e quella conclusiva, tutta incentrata sui tentativi utopici e francamente ipocriti da parte delle due coppie di dimostrarsi civili nel discutere la fanciullesca diatriba. Polanski adopera con ingegno, come è sua consuetudine, la macchina da presa, seguendo con attenzione: quattro attori senza lasciargli semplicemente dare sfoggio delle loro doti con lunghe e ampie inquadrature fisse, bensì incalzandoli con primi piani, piani americani e totali, comunque quasi mai lasciandogli molto respiro, costringendoli nell’immagine così come i loro alter-ego filmici sono imprigionati in quell’impasse apparentemente diplomatico ma in cui evidentemente nessuno è disposto a rinunciare o a ritrattare le proprie convinzioni. Siamo stregati dalle performance degli interpreti, ma Polanski è abilissimo a mettere in gioco una splendida variazione del ritmo: inizia pacato, dissemina indizi dell’inevitabile catastrofe, poi però torna ad allentare la tensione, addirittura portandoci più volte sull’uscio o fuori l’appartamento come se tutto stesse per finire; poi una quisquiglia ed eccoci nuovamente nell’arena. Polanski non sembra infastidito dalla naturale propensione alla violenza che dimora in ciascun essere umano (gli orrori di cui è stato testimone in giovane età lo hanno sicuramente portato a credere che la malvagità sia impossibile da sradicare totalmente nel mondo); il dito, il j’accuse del regista, è rivolto invece a quella superba e falsa bandiera sventolata dalle società cosiddette civili, che pensano di nascondere con un pò di trucco la propria bruttura, a tal punto da convincersi di avere effettivamente tutti i diritti per erigersi al di sopra degli altri.
“Il primo giorno della mia vita” è il film di Paolo Genovese che non ti aspetti secondo Francesca D’Angelo di Elle. Che il regista avesse chiuso con le commedie rassicuranti era già chiaro a tutti, fin dai tempi di Perfetti sconosciuti. Tuttavia era difficile immaginare una svolta così cupa. Il nuovo film, infatti, affronta una serie di temi: Il primo è quello del suicidio, seguito da svariate domande esistenziali come “cos’è la felicità” e “perché vale la pena di vivere” o anche “ci si può salvare da soli?”. La storia ruota infatti attorno a quattro persone che, per ragioni diverse, hanno deciso di togliersi la vita. A ciascuno di loro si presenta Uomo (chiamato anche “coso”), ossia una persona non meglio identificata che chiede di dargli sette giorni di tempo. Al termine della settimana, i suicidi potranno decidere se confermare la scelta che hanno preso nell’ultimo giorno della loro esistenza (ovvero uccidersi) oppure cambiarla, optando per la prima scelta della loro nuova vita (da qui il titolo). “Il seme di questa storia è nato dopo aver visto il documentario The bridge- il ponte dei suicidi: il regista Eric Steel piazzò una telecamera in cima al Golden Gate Bridge riprendendo tutti i suicidi consumati là sopra. Poi è andato a intervistare chi era sopravvissuto al salto nel vuoto e tutti hanno raccontato di essersi pentiti in quei sette secondi che cadevano nel vuoto”, racconta alla presentazione stampa Paolo Genovese, “quei sette secondi sono poi diventati i sette giorni nel mio film”. La posta in palio è chiaramente molto alta tant’è vero che lo stesso regista ammette di aver riscritto “la sceneggiatura mille volte, buttando via interi capitoli: il rischio di essere banali, superficiali e ridondanti è sempre molto alto quando si parla di senso della vita”. Il cast è così composto: nei panni dell’Uomo c’è Toni Servillo, mentre in quello dei quattro suicidi figurano un impeccabile Valerio Mastandrea, una Margherita Buy assolutamente in parte così come un’azzeccata Sara Serraiocco. Chiude il cerchio il piccolo Gabriele Cristini. “Fin dall’inizio ci siamo detti: occhio a non cadere nella retorica” commenta Mastandrea, “siamo stati mossi da un pudore, ossia dal desiderio di rispettare quel senso inspiegabile di perdita che una persona può incontrare nella propria vita. Mi sembra che ci siamo riusciti”. Mentre per Alessandra De Tommasi di Vanity Fair “Il primo giorno della mia vita”, è la ricetta della felicità secondo Paolo Genovese. Il film tocca un tema delicatissimo, quello del benessere psicologico. In altre parole racconta quattro personaggi alle prese con la decisione di uccidersi: “né morti, né vivi, sospesi nel tempo”, per dirla con le parole dell’Uomo (Toni Servillo). Nessuno di loro sopporta il peso di un’esistenza a ostacoli e quindi tutti, in un modo o nell’altro, ricorrono al suicidio. E qui entra in gioco l’Uomo che ricorre a tutta una serie di stratagemmi e trovate per infondere un po’ di “senno di poi” e provare a salvarli da loro stessi. Non vuole risolvere i drammi con un colpo di bacchetta magica, solo mostrarli in prospettiva. Né giusta, né sbagliata, solo la sua, basata su un’esperienza di molti casi simili eppure diversissimi tra loro. In un mondo ideale basterebbe avere buone intenzioni per centrare l'obiettivo, peccato che la realtà sia diversa. Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese offre un barlume di riflessione e, per quanto a tratti incoerente e confuso, ha il pregio di averci almeno provato.
Fonte: Elle e Vanity Fair
Per Peter Bradshau del The Guardian la lealtà e il piedistallo-prigione della femminilità sono i temi del nuovo film della regista austriaca Marie Kreutzer, che immagina la vita domestica dell’imperatrice ausburgica Elisabetta d’Austria nel 1877, anno del suo 40° compleanno. Elisabeth è brillantemente interpretata da Vicky Krieps come misteriosa e sensuale, imperiosa e severa: una donna di passioni e malumori che affronta il gelido disgusto della corte e della famiglia del suo infedele marito Franz Joseph (Florian Teichtmeister). Assistenti e funzionari viennesi, contestano la sua lealtà austriaca mentre fanno vergognare il corpo di Elisabeth che ogni giorno affronta la lotta letterale e figurativa per adattarsi al suo corpetto e scendere a un terrificante 18 pollici intorno alla vita. Elisabeth indossa abiti viola, ombrellini viola, fuma sigarette viola e distribuisce cioccolatini al profumo di viola ai disgraziati negli ospedali e nei manicomi. Sorride davvero solo alla vista dei suoi cani ed è completamente devastata quando il cavallo che l’ha disarcionata, deve essere abbattuto. Il film la fa vivere in una serie di enormi saloni freddi e cupe sale da pranzo da cui si rifugia nei bagni, sottoponendosi a vari regimi dimagranti autolesionisti. E’ una figura solitaria, che galoppa incustodita attraverso varie tenute europee. Per molti versi il film è uno studio sulla rabbia, ed da un’immagine austera e spigolosa della protagonista. Mentre per Martina Barone di eweryeye.it, nella rivisitazione della vita della principessa Sissi, la reale è una donna annoiata dagli altri e dai suoi stessi vizi, nonché forzata ad accettare il tempo che scorre. Un’identità estroversa eppure a suo agio nello stare con se stessa, meno di fronte ad uno specchio che le ricorda l’avanzamento dell’età e cosa ne è stata della sua bellezza. Per questo, in quelli che sono gli ultimi scorci di brillantezza dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, Marie Kreutzer ci conduce nelle sue stanze, lontana da occhi indiscreti, oppure nelle sue fughe romantiche nascoste, le quali non è detto che debbano finire per il meglio. E’ lo scrutare una figura femminile che si è sentita costretta in quel suo corsetto che le ha impedito di respirare per gran parte della sua vita. E’ vedere come sequenza dopo sequenza la donna assuma sempre più consapevolezza del volersi sentire finalmente leggera, almeno un’ultima volta, arrivando così a quella meravigliosa chiosa in mare aperto, in uno slancio finale pieno di euforia e libertà. E’ una donna che vuole sentirsi ancora donna e che comprenderà che per farlo, per trovare se stessa, non dovrà aggrapparsi ai desideri degli altri proiettati su di lei (cosa che non fa da tempo), bensì dovrà scegliere di lasciarsi andare scavallando le leggi della Corona e della sua medesima vita. Con il corsetto dell’imperatrice Marie Kreutzer restituisce una versione inedita della principessa Sissi. Una donna moderna che accusa l’avanzamento dell’età. Che non vuole sentirsi più costretta da quel “corsage” che la opprime e che diventa metafora dell’esistenza trascorsa tra le mura del proprio palazzo. Un personaggio pieno di vita, che viene spesso trattenuto, fin quando non troverà la maniera di poter slanciarsi verso la libertà.
Fonte: The Guardian e eweryeye.it
Nella descrizione di Forever Young di Valeria Bruni Tedeschi da parte di Luca Bernabè su Style Magazine del Corriere della Sera è spiegato come il film sia ambientato in un teatro dove si svolgono le audizioni per essere ammessi alla prestigiosa scuola di recitazione Amandiers. Le selezioni sono dure, rigide e snervanti. Tra le persone ammesse c’è la giovane e ricca Stella (Nadia Tereszkiewcz), aspirante attrice con una tendenza al didascalismo e alla gestualità enfatica. Tra i ragazzi si distingue Etienne (Sofiane Bennacer), giovane con problemi di droga. Stella ed Etienne vivranno una storia d’amore tormentata, totalizzante e burrascosa. Mentre il maestro Patrice Chereau (strepitoso Louis Garrel) indica loro come far confluire sul palco, emozioni, realtà e vita. Dei 40 studenti ammessi alla scuola, ne verranno selezionati soltanto 12… Conta il lavoro che si fa. Non la presenza in scena…” osserva il maestro Patrice Chereau (Garrel) rivolto ai suoi studenti di recitazione. E del lavoro dell’attore vedremo la bellezza, la durezza e anche il “giocare”. Valeria Bruni Tedeschi, racconta una storia parzialmente autobiografica (il suo alter ego è Stella). Ripercorre i “suoi” anni 80 alla scuola Nanterre- Amandiers. Lo fa quasi sempre ad “altezza attori”, consentendo allo spettatore un’immedesimazione continua e costante con personaggi distanti, non solo temporalmente. Chi vede il film riesce ad immedesimarsi in persone che, per crescere, devono riuscire ad essere “altro da sé”. Ma anche far confluire se stessi in quell’altro da sé. Ridere anche delle stortature della vita. Però Forever Young non è un film teorico o intellettualistico, né retorico o autoindulgente. E’ vero: percepiamo le sgradevolezze di esperienze dolorose e ricordi scioccanti (è un’epoca segnata dall’eroina e dall’AIDS). Ma il film è anche un’opera spesso “leggera”, nonostante le storture della vita, ironica e autoironica. Tra verità e messa in scena, realtà e simulazione. Con un gruppo di attori da Stella- Tereszkiewicz a Etienne- Bennacer, davvero straordinario. Mentre per Peter Bradshau di The Guardian, il film Forever Young è una storia infinitamente noiosa di studenti di recitazione coinvolti in se stessi. Tra i ranghi dei bramosi e delle speranze profondamente serie Stella (Nadia Tereszkiewicz) è una star bionda appassionata e un po’ imbarazzata per la casa estremamente ricca da cui proviene; Adele (Clara Bretheau) è la figura ribelle e stravagante che non indossa le mutande al provino; Victor (Vassily Schneider) è un ragazzo goffo e dal carattere dolce; Etienne (Sofiane Bennacer) è il ragazzo drogato che inizia a uscire con Stella, e la sua immagine lunatica e l’abitudine di gridare “Stella!” guadagnandosi il soprannome di Marlon Brando, l’unico momento umoristico del film. L’insegnante di recitazione Pierre Romans è interpretato da Micha Lescot, e il leggendario Chereau è interpretato con un carisma imperioso molto fumante da Louis Garrel. Ma ciò che è esasperante del film è la sua riluttanza a drammatizzare l’insegnamento: mostrare i giovani stessi che stanno semplicemente migliorando la recitazione. Stanno recitando il Platov di Checov, uno dei cui temi è la fragilità e l’impermanenza della giovinezza. Ma la loro relazione con Cechov non è presa sul serio: la commedia fornisce semplicemente scene accidentali e uno sfondo per lo sciocco tumulto da soap opera.
Fonte:Style Magazine del Corriere della Sera e The Guardian.
Il film The Menu è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma 2022. Nel film si parla di un gruppo di persone che s’imbarca su uno yacht per raggiungere un’isola. Su quell’isola poi c’è un ristorante chiamato l’Hawthorne. Questo ristorante non è un ristorante qualunque ma è uno di quelli carissimi e dove si fa altissima cucina. Quella cucina che diventa arte, ricerca, sperimentazione, filosofia e esperienza. I commensali non sembrano simpaticissimi. Ci sono infatti tre arroganti e caciaroni manager di una qualche ricchissima Tech Company, una coppia di milionari (lui si capisce che ha qualche segreto), un vanitoso attore in declino (John Leguizano) e la sua assistente, una critica gastronomica piena di presunzione e di sé, la donna che ha lanciato la carriera dello chef del ristorante. E poi ci sono i nostri due protagonisti, Nicolas Hoult e Anja Taylor joy: lui fanatico di cucina, ossessionato da tecniche e dalle foto dei piatti, super eccitato per aver finalmente trovato un tavolo e godere delle elaborate prelibatezze dell’Hawthorne, lei accompagnatrice un po’ misteriosa (ma un po’ no) che capiamo non essere stata la sua prima scelta. Perché, arrivati sull’isola, la preparatissima e militaresca assistente dello chef, anche maitre del ristorante, che sa tutto di tutti gli ospiti, rimane un po’ così di fronte a chi non pensava di dover accogliere. Una volta sull’isola e una volta seduti a tavola, portata dopo portata, tutti questi personaggi capiranno che quella cena, e quel menu’ che pensavano di assaggiare, ideato teoricamente dallo chef di Ralph Fiennes, che nel film si chiama Julian Slowik, riserveranno per loro delle sorprese dapprima solo sgradite e poi pericolosamente mortali. I toni di questo thriller gastronomico sono quelli di una satira acidissima. Chi sono i bersagli di questa satira? L’attore mitomane e presuntuoso che fa name dropping, i tre yuppie del terzo millennio, gli ipocriti bravi mariti e ovviamente gli chef filosofi con manie di grandezza. E soprattutto, coloro i quali pendono dalle loro labbra in maniera acritica, non reagendo nemmeno di fronte alla più sfacciata delle evidenze, e che conoscono tutto, sanno tutto, commentano tutto, esaltano tutto, senza sapere però nemmeno da che parte si afferra un tegame. Quella dello chef Fiennes è una setta. Lui, per loro, è un Dio, un guru, oltre che uno chef. La precisazione ossessivamente scrupolosa con la quale le pietanze vengono preparate, impiattate, servite, è la stessa con cui chef Slowik ha architettato il suo piano. Ma, ovviamente, quello che lo chef non poteva prevedere era l’imprevisto: Anya Taylor- Joy. O Margot, come si fa chiamare nel film. Una Margot che non appartiene né al mondo degli arroganti commensali, né è parte integrante di quello dello staff di cucina. Una scheggia impazzita che potrebbe ostacolare un piano perfetto, se la perfezione fosse di questo mondo. Ma è anche la persona che ricorda allo chef che non si cucina per ossessione ma per amore.
FONTE:www.comingsoon.it
Sappiamo da decenni che le famiglie distrutte nei film di Steven Spielberg sono state ispirate dalle sue, ma nel semi-autobiografico The Fabelmans ci offre la storia in una forma pura, diretta, realistica – non sono richiesti extraterrestri – e crea una delle sue opere più emotivamente oneste e meno sentimentali. Il film è plasmato dalle interpretazioni nitide di Gabriel LaBelle nei panni dell'adolescente Sammy (l'alter ego immaginario di Spielberg), Michelle Williams nei panni della sua fantasiosa e frustrata madre, e in particolare Paul Dano nei panni del suo padre senza fronzoli - gli ultimi due sono persone così diverse , sono destinati a rompersi. I film amatoriali di Sammy aggiungono arguzia al film, ma è il sentimento familiare che resiste. Guardando indietro con occhi da adulto, Spielberg vede i suoi genitori con tutti i loro difetti, eppure infonde nel film calore, comprensione e amore.
Fonte: BBC Culture
È il 1920. L’omaggio per l’ottantesimo compleanno di Giovanni Verga riporta in Sicilia Luigi Pirandello (Toni Servillo). Arrivato a Girgenti però lo scrittore e drammaturgo scopre che l’amata balia, Maria Stella (Aurora Quattrocchi) è venuta a mancare. L’uomo decide quindi di occuparsi personalmente delle esequie e della tumulazione. Incontrerà così due becchini-Sebastiano Vella (Salvo Ficarra) e Onofrio Principato (Valentino Picone)-che per svago praticano teatro amatoriale. Un contrattempo ritarderà però il funerale della donna. E costringerà lo scrittore ad addentrarsi con i due becchini nei gironi infernali della corruzione degli addetti al cimitero. Tormentato da un’idea strana e ancora imprecisata, la creazione di una nuova commedia, Pirandello trascorre lì ore turbate e febbrili durante le quali si susseguono visioni spettrali, ricordi, malinconiche apparizioni. Ritornato a Girgenti dopo l’incontro con Giovanni Verga, sempre più incuriosito dal fascino caratteristico dei due becchini, Pirandello ne segue le prove teatrali e assiste alla prima della loro nuova farsa: La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu. Nel teatrino in cui si è radunato l’intero paese durante la divertentissima recita a un certo punto accade un evento imprevisto che costringe Nofrio e Bastiano a interrompere la rappresentazione. All’improvviso, in sala, l’atmosfera volge dal comico al tragico, e si trasforma in una resa dei conti totale in cui a confrontarsi sono la platea e gli attori. Pirandello spia, ogni minimo gesto di quella comunità afflitta e ne sembra insieme divertito e sconvolto. Roma 1921. Al teatro Valle si è raccolto il pubblico delle grandi occasioni per la prima dei sei personaggi in cerca d’autore. La recita inizia e i due-Sebastiano Vella e Onofrio Principato-invitati dallo stesso Pirandello, assistono sorpresi ed estasiati, come d’altronde, anche gli stessi spettatori, al susseguirsi di situazioni paradossali proposte dal commediografo Pirandello nella sua commedia, sino ad un finale imprevedibile.
FONTE: Style Magazine, il mensile del Corriere della Sera e everyeye.it
Nel film Acqua e Anice Olimpia (Stefania Sandrelli) ha una settatina d’anni e un passato di successi come cantante di balera insieme alla sua band chiamata “I capricci di Olimpia”. In Emilia Romagna è stata una star, ma ora “i suoi capricci non li ascolta più nessuno” e sta cominciando a diventare meno lucida e sempre più disorientata. Ora si prepara ad un viaggio con la usuale mancanza di indecisioni e assume la mite Maria, fidanzata del bagnino del lido dove prende ancora il sole in topless, affinchè la guidi fino a Zurigo, dove andrà a trovare un’amica, fermandosi prima al matrimonio della sorella, dove dovrà cantare. E’ l’inizio di un’avventura che cambierà la vita ad entrambe. Acqua e Anice è un road movie lungo il passato pieno di successi, ma anche di errori, di Olimpia, che è stata molto amata e molto offesa. Per i suoi ex, nell’amore e sul lavoro, è indimenticabile, ma anche lei non ha dimenticato nessuno, né alcun torto subito. E vuole restituire qualcosa a tutti: un rimprovero, un abbraccio, un invito a tenere duro, una richiesta di perdono. Maria si trova a dover gestire quella “vecchia” dalle battute scorrette e talvolta sgradevoli con un misto di ammirazione e di sconcerto, aprendosi a poco a poco alla sua generosa follia. Ma mentre Maria “si pente di tutto quello che ha fatto”, e spesso non ha fatto, Olimpia ha avuto un passato ricco e avventuroso. Il viaggio delle due donne si snoda attraverso barconi sul fiume e non-luoghi disabitati, con una malinconia caratteristica di quei paesaggi ma anche corrispondente alla storia narrata, e gli incontri sono tutti sul filo della nostalgia e del rimpianto, in primis quello con jimmy, un ex membro della band (ben interpretato da Paolo Rossi) che si unirà al duo per una parte del percorso. “L’importante è arrivare a destinazione”, afferma Olimpia, ma quella destinazione è meno chiara di quanto poteva apparire all’inizio, e il rapporto con Maria avrà svolte inaspettate. E ciascuno imparerà qualcosa dall’altra. Ma la regia di Corrado Ceron è incerta, forse intimidita dalla presenza di Stefania Sandrelli che, nel ruolo di Olimpia, ha momenti di indescrivibile grandezza. Silvia D’amico , invece, nel ruolo meno appariscente di Maria, riesce a perparare meglio la sua interpretazione, regalandole sfumature delicate e commoventi. Ella è una giovane donna, timida e impacciata, appena ingaggiata per fare da autista ad Olimpia.
Fonte: mymovie.it e cineuropa.
Il Film Siccità è ambientato a Roma dove non piove da 3 anni, l’acqua è razionata e il Tevere è completamente asciutto, e dal suo letto prosciugato emergono nuovi reperti della Roma che fu. Ovunque corrono qua e là gli scarafaggi, sospettati di portare la pandemia che esplode nella città. Su questo sfondo apocalittico, si muove una grande moltitudine di personaggi le cui vicende si intrecciano in un equilibrio narrativo assai saggio.C’è un attore sfigato reinventatosi come influencer, un detenuto che evade da Rebibbia per sbaglio, un climatologo che si rimbambisce causa improvvisa fama in tv, un imprenditore in miseria, un’infermiera e una dottoressa che lottano eroicamente contro la pandemia… Storie buffe, curiose e tragiche, che si avvalgono di attori tutti magnificamente diretti. Il film Siccità di Paolo Virzì assomiglia al film Giudizio Universale di Vittorio De Sica del 1961 ed al film L’ingorgo di Luigi Comencini del 1979. In quest’ultimo, L’ingorgo, la catastrofe cioè un colossale assembramento di automobili sulla via Appia, è provocata dall’uomo, mentre nel primo Giudizio Universale, ideato dal genio di Cesare Zavattini, la popolazione di Napoli si affatica nell’attesa dell’Apocalisse, prevista per le 18 del pomeriggio. Il film Siccità di Paolo Virzì si avvicina più al modello del film di De Sica Giudizio Universale , solo che non esprime una sola metafora ma bensì due grandi metafore, l’emergenza climatica e l’emergenza sanitaria. Siccità è il film che in questo 2022 ci dice qualcosa di profondo e preoccupante su questa bizzarra italia.
Fonte:La Repubblica
Come dice Lorenzo Ciofani in cinematografo.it, il film The Whale si basa su un’immagine forte, che si incarna nel corpo attoriale di Brendan Fraser, naturalmente alle prese con il ruolo della vita e il film è stato in concorso a Venezia 79. Nel dar vita a un obeso insegnante di corsi online (che non accende mai la telecamera e delega tutto a una voce distesa e persuasiva), rinchiuso in casa sia per questioni fisiche sia per scelta personale, Fraser porta molto del suo vissuto: la solitudine del divo che si è lasciato andare diventando l’antitesi dell’ideale di bellezza (hollywoodiana) di cui era rappresentante; l’amarezza del tempo perduto; il senso della fine (di una carriera partita in un modo e che si è dovuta per forza reinventare). Fraser sa evidentemente cosa vuol dire sentirsi a disagio in un corpo radicalmente mutato, ma nel lavoro con la tuta protesica (no, non pesa 266 chili come il suo personaggio) dimostra una profondità, una perseveranza, una volontà di riscatto che appartengono a un attore sensibile e troppo intelligente per mettere davvero in campo se stesso e il proprio dramma. E’ come se ci fossero 2 film: uno è quello di Fraser, che trova in The Whale la grande occasione per restituirsi al cinema d’autore grazie ad un personaggio di sicuro urto; e l’altro è quello di Aronofsky, che cerca invece di indurre il film verso un disturbante teatro di crudeltà. The Whale copre 5, fondamentali, giorni della vita di quest’uomo abbandonato da tutti (a parte un’amica infermiera, Liz, che si prende cura di lui) che decide, forse prevedendo qualcosa, di riallacciare i rapporti con la figlia, un’adolescente arrabbiata col mondo (con lui in primis). E lei accetta di frequentarlo solo per interesse, mentre un giovane missionario della New Life bussa alla porta promettendo la salvezza eterna. Mentre secondo Richard Lawson di Vanity fair, The Whale è un triste dramma da camera. Adattato alla pièce teatrale di Samuel D. Hunter del 2012, The Whale è la storia di un uomo obeso, Charlie (Brendan Fraser), che vive quelli che potrebbero essere i suoi ultimi giorni, mentre il suo cuore vacilla e la sua mente si perde nel rimpianto. E’ una storia dura che si svolge praticamente in una sola stanza. Quasi tutta l’energia di The Whale viene dunque diretta nella rappresentazione del corpo di Charlie, una protesi che Fraser porta come una croce sulla spalla. Il film sembra insistere sul fatto che si tratta di un potente atto di divenire, e anche di empatia. Ma ciò che viene espresso è invece una sorta di orrore sfacciato il ritratto di un uomo che va incontro a una catastrofica rovina in modo che noi spettatori possiamo vedere l’essere umano degno sotto l’aspetto spaventoso. Non sembra per niente una forma di empatia. L’intenzione è buona, sia da parte di Aronofsky che di Fraser, ma la loro esecuzione è turgida e spettrale. Ogni volta che Charlie mangia un boccone, Aronofsky fa partire la colonna sonora roboante di Rob Simonsen, con archi semplici e sinistri che indicano che sta accadendo qualcosa di molto, molto brutto e spaventoso. Quello che avrebbe potuto essere uno studio cupo e attentamente ponderato di un uomo solo alle prese con il suo passato diventa un lavoro di posa. Aronofsky non riesce a trovare un modo per rendere cinematografiche tutte queste entrate e uscite dei personaggi. Lui e Hunter, drammaturgo spesso eccezionale, non vogliono abbandonare i trucchi e le forme che funzionano nel teatro ma che risultano discordanti sulla macchina da presa. C’è un certo naturalismo nei tratti iniziali del film, una conversazione che suona familiare e credibile. Quando sentiamo un po’ dell’innata dolcezza che ha sempre animato il lavoro di Fraser che si irradia attraverso tutti questi strati di sforzo, di solito è perché recita al fianco di Chau (Liz), la cui interpretazione è l’unica cosa calibrata in modo ponderato nel film. Fraser e gli altri suoi co-protagonisti minacciano solo di distruggere il delicato spazio che Chau (Liz) crea e poi deve ricostruire, scena dopo scena, per tutto il film. The Whale vuole essere una struggente riflessione sul senso di colpa, sulla sensualità, sulla religione, sul rimorso.
Fonte: cinematografo.it e Vanity Fair
L’attrice Cate Blanchett, secondo Martina Barone di everyeye.it , in Tar riesce ad incantare pur in una maligna veste. Furibonda nella sua austera compostezza, l’interprete in Tar,per la sua Tar, incanala una rigidezza che offre un’interpretazione nervosa e tirata della protagonista. Cate Blanchett si trasforma in Lydia Tar e ne rende cupa la voce, ne irrigidisce i muscoli. Le vene si fanno pulsanti sulle mani volteggianti con cui conduce la sua orchestra, il collo si tira a tal punto da vederne scorrere il sangue dietro a quello strato pallido e leggero della pelle. Supportato da un guardaroba che riesce a descrivere la personalità della donna anche attraverso il suo vestiario. Essere Lydia Tar è ben diverso da recitare la parte di Lydia Tar. Ed è per questo che il regista Todd Field ha rincorso Cate Blanchett. Nella sua abilità di calarsi nel ruolo, l’interprete si annulla per lasciare ai tic della donna e alla sua maniera decisa e prepotente di uscire e stare al mondo. Un’interpretazione di forza, oltre intellettualmente stimolante, in cui Cate Blanchett è corpo a disposizione per venire mutata pur rimanendo sempre se stessa. E’ vedere trapelare il personaggio dagli occhi, dai gesti, dall’aurea dell’attrice, rendendola reale. E’ nella sequenze di musica e direzione che Cate Blanchett lascia respirare ed esprimere il suo personaggio. Nelle braccia tremanti che conducono il tempo della melodia, fondamentale per l’andamento e l’emotività musicale. E’ la bacchetta che diventa prolungamento di quelle mani che coordina una sovrabbondanza di strumenti musicali che contengono le intenzioni e le creazioni di geni della composizione. Con la sua interpretazione che vale all’attrice la Coppa Volpi alla 79 Mostra del Cinema di Venezia e un risultato finale che fa di Tar uno dei suoi migliori successi interpretativi, Cate Blanchett conferma di vivere i personaggi al punto di scomparire in loro. Di ritrovarli sotto altra forma, in questo caso, la musica. Di mettere volto, arti, busto, gambe, tutte al servizio dell’opera. Mentre per l’autrice che scrive su Style Magazine del Corriere della Sera, il nuovo film di Todd Field esalta la bravura dell’attrice australiana Cate Blanchett nei panni di una direttrice di orchestra disprezzabile che sfrutta il suo potere per ottenere favori sessuali. Nel film Cate Blanchett parla tedesco, suona il pianoforte, dirige l’orchestra e si dimostra eccellente nel costruire un personaggio sui generis ma assolutamente verosimile, che progressivamente conquista il favore del pubblico. Logorroica e intransigente Lydia è uno sgradevole uomo mancato. Il film di Todd Field punta i riflettori su una donna che si fa chiamare “maestro” e dice di essere il “padre” di sua figlia, che schiaccia la sua ex amante tanto da indurla al suicidio, che ribadisce come in un’orchestra non possa esserci democrazia, che maltratta le assistenti personali e seduce le sue borsiste in maniera seriale. Quando quest’ultima abitudine viene a galla e su di lei sovrastano le accuse, si trasformerà in una belva pronta ad aggredire e fare scenate pubbliche. Ma secondo l’autrice si sfiora nella sceneggiatura soltanto il tema della predazione sessuale ad opera di una donna, poi si scade subito nella psicopatologia e si finisce per firmare, di fatto, l’ennesimo ritratto di una donna geniale ma mentalmente instabile. Ed il film è un’occasione decisamente mancata per approfondire il tema da una prospettiva nuova e originale, mentre di film sulla malattia mentale è pieno il mondo e il curriculum di Blanchett.
Fonte: everyeye.it e Style Magazine del Corriere della Sera
Il regista Gianni Amelio è in concorso a Venezia con il film Il signore delle formiche. Una storia che offre considerazioni molto attuali sulle libertà civili e individuali e sul concetto di norma e diversità. Questo film Il signore delle formiche di Gianni Amelio è stato selezionato in concorso alla 79ma Mostra del cinema di Venezia, tra i 5 italiani in gara per il Leone d’oro. Il film richiama alla memoria il clamoroso “caso Braibanti” che negli anni 60 coinvolse un intellettuale vicino a Pasolini e Bertolucci. Alla fine degli anni 60 si svolse a Roma un processo che fece scalpore. Il drammaturgo e poeta Aldo Braibanti fu condannato a 9 anni di reclusione con l’accusa di plagio, cioè di aver sottomesso alla sua volontà, in senso fisico e psicologico, un suo studente e amico da poco maggiorenne. Il ragazzo, per volere della famiglia, venne rinchiuso in un ospedale psichiatrico e sottoposto a una serie di devastanti elettroshock, perché guarisse da quel potere “diabolico”. Alcuni anni dopo, il reato di plagio venne cancellato dal codice penale. Ma in realtà era servito per mettere sotto accusa i “diversi” di ogni genere, i fuorilegge della norma. Basandosi su fatti realmente accaduti, il film racconta una storia a più voci, dove, accanto all’imputato, assumono consistenza i famigliari e gli amici, gli accusatori e i sostenitori, e un’opinione pubblica in gran parte distratta e indifferente. Solo un giornalista si riserva di ricostruire la verità, scontrandosi con sospetti e censure. Braibanti è interpretato da Luigi Lo Cascio (David di Donatello per I cento passi e Il traditore); al suo fianco, Elio Germano ( visto di recente in America Latina), Sara Serraiocco ( Best European Talent a Berlino per Cloro, vista di recente in Io sto bene) e l’esordiente Leonardo Maltese. Il film uscirà nelle sale italiane l’8 settembre con 01 Distribution; la distribuzione internazionale è affidata a The Match Factory.
Fonte: cineuropa.org
Il film Bardo parla dell’intimo e commovente viaggio di Silerio, un noto giornalista e documentarista messicano che vive a Los Angeles; egli ,dopo aver ricevuto un importante riconoscimento internazionale,primo latinoamericano a riceverlo, dai colleghi statunitensi, è costretto a tornare nel suo paese natale non consapevole che questo semplice viaggio lo indurrà verso una profonda crisi esistenziale. La follia dei suoi ricordi e delle sue paure riesce ad introdursi nel presente, riempiendo i suoi giorni di un senso di sconcerto e stupore. Tra emozioni e abbondanti risate, Silverio lotta per trovare risposte a domande universali eppure intime, riguardanti la propria identità, il successo, la fragilità della vita, la storia del Messico, i migranti, il rapporto tra Usa e Messico, con Amazon che si appresta a comprare la California del Sud e i profondi legami sentimentali che Silverio condivide con la moglie e i figli. In breve,che cosa significa essere umani in questi tempi molto particolari. Il regista del film Inarritu si è reso conto anni fa che la strada davanti a sé era molto più breve di quella che aveva già percorso e così ha cominciato a perlustrarla a ritroso e nel profondo, ma entrambi i sentieri sono ingannevoli e labirintici. Il tempo e lo spazio si incrociano e la narrazione che costituisce “la nostra vita” non è molto di più di un falso miraggio, composto da fatti sentiti in modo soggettivo dal nostro imperfetto sistema nervoso. La memoria non è veritiera, possiede soltanto convinzioni derivate dalle emozioni. E’ quindi la verità dell’emozione che il regista vuole ricercare, nell’enorme baule pieno di chimere che si porta dietro. Il regista ancora avverte che non ha trovato alcuna verità assoluta, ha solo percorso un viaggio tra realtà e immaginazione. Un sogno. I sogni come il cinema, sono reali ma non veri, e in entrambi il tempo è liquido (terso). Bardo è il racconto di un viaggio tra queste due illusioni dai confini indecifrabili.
Fonte: La Biennale di Venezia e cinematografo.it
Il vincitore del Festival di Cannes 2022, Triangle of Sadness sta per arrivare al cinema. La satira sociale ideata da Ruben Ostlund vede tra i protagonisti Harris Dickinson e Charlbi Dean